Il mestiere del tipografo

Negli anni ’30 e ’40, era ancora in uso nelle famiglie del proletariato, indirizzare il figlio in età di 13-14 anni in una bottega artigiana ad imparare un mestiere (arte) .

Come si imparava a fare il tipografo.

Piuttosto che far proseguire il proprio figlio negli studi si preferiva fargli imparare un mestiere.

A quei tempi, se qualcuno in famiglia avrebbe dovuto studiare, quello era il figlio maschio, sempre che le condizioni economiche
lo permettessero. Volente o nolente, egli si trovava con un obbligo e una responsabilità assai pesante. Se poi, l’attività scolastica non dava buoni risultati o progressi, questo diventava un tormento per molti anni.
Invece, alle giovani donne della famiglia, fin dalla più tenera età, era meglio far capire che dovevano sposarsi presto e bene e accudire per tutta la vita ai figli, al marito e alla casa. Le famiglie di questo strato sociale, erano ancorate ad antichi schemi di gestione e la speranza di migliorare la propria condizione sociale, era vera utopia. Quindi, nella maggior parte dei casi, i genitori preferivano far lasciare la scuola ai figli, poiché proseguire negli studi significava inoltrarsi lungo una strada assai difficoltosa e soprattutto costosa.
E allora era meglio imparare un mestiere.
Per avviare al lavoro un giovane, di solito i genitori ricorrevano all’aiuto di un amico o di un conoscente di famiglia. Ma il più delle volte la scelta era casuale su chi si era già fatta una posizione nella vita: argentieri, doratori, incisori, fabbri, falegnami, meccanici, tipografi… Così, il proprio destino si avviava (involontariamente e per puro caso) verso una professione che il più delle volte era sconosciuta da tutti in famiglia. D’altra parte proseguire il lavoro del padre non era da pensare: egli non avrebbe mai permesso ad una sua creatura di soffrire
le sue stesse pene.
Con queste scelte obbligate e questi punti di vista, il giovane entrava “apprendista” in laboratori o botteghe che erano quasi sempre sporchi e malsani, con una paga inesistente e con rapporti umani spesso umilianti e anche brutali. Ma poco per volta e a furia di questi contatti, insieme ad una sua “santa” abnegazione, il mestiere piano, piano, lo imparava.

L’apprendista in una tipografia per esempio (come in qualsiasi altro posto) serviva a tutto e a tutti. La sera faceva le pulizie e di giorno la spesa alla signora, portava il cane a passeggio, consegnava il lavoro a domicilio con un carretto spinto a mano in mezzo a due stanghe, come un ciuchino, il sabato lavorava sempre tutto il giorno, e spesso anche la domenica mattina. Nei momenti di maggiore pressione di lavoro, fare mezzanotte era abbastanza normale. Sport e svaghi, quasi nulla. Lavorava presto su macchine poco protette e a seconda della sua capacità di apprendimento, spesso sostituiva l’operaio che passava a fare cose più importanti. Dentro la bottega esisteva una gerarchia ferrea.
L’operaio più bravo e più anziano, prima o poi diventava “capo reparto” o “capo macchina” o “proto”. L’apprendista, assetato dalla necessità di fare esperienza, stava appresso a lui ed osservava i suoi movimenti. L’operatore spesso, copriva con le proprie spalle le operazioni piu delicate.
Questi giovani apprendisti erano un rischio alla sicurezza del suo posto di lavoro e le notevoli esperienze accumulate con gli anni (pur essendo empiriche e basate su notizie tramandate o “rubate” a sua volta ad altri) erano un grande tesoro da difendere. Così, quando le domande lo incalzavano, si difendeva dicendo che “erano segreti suoi” e così tirava avanti.
Per l’apprendista quindi, erano anni di umiliazioni e mortificazioni dove l’apprendimento era purtroppo assai poco. Egli serviva a tutt’altre cose. Alla sera, quando tornava tardi dal lavoro, la madre era ad attenderlo per fargli trovare qualcosa di caldo da mangiare. Questi erano i momenti di maggiore confidenza, ed alle sue lamentele la madre usava rispondere: «Eh, bambino! Il padrone è il padrone. Noi siamo nati con questo destino, cosa ci vuoi fare…».

Con questa filosofia e questa rassegnazione, visto che quello sarebbe stato il proprio lavoro e che prima o poi doveva essere fatto bene, al giovane non rimaneva che “rubare con gli occhi” quanto più poteva perché un giorno potesse avere anche lui un posto di lavoro più sicuro e dignitoso, ed essere a sua volta più rispettato. Così, molti entravano fanciulli e rimanevano nella stessa azienda per tutta la vita. Un po’ per indolenza, un po’ per necessità, un po’ per riconoscenza verso la proprietà, poiché le aziende a quei tempi, erano purtroppo poche e i posti di lavoro ancora meno.

Scritto da: Ugo Francalanci

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